Irrational man: la filosofia della vita

Film di Woody Allen a dir poco originale! Il regista newyorkese introduce ancora una volta in una sua creazione il tema della libera scelta e dell’ironia della sorte. Ma soprattutto ci mostra lo strano e misterioso rapporto che gli esseri umani hanno con la dea Fortuna. Siamo tutti in balìa del Caso, sovrano della nostra vita o siamo noi invece a disegnare il nostro destino? Per Woody Allen sono senz’altro valide entrambe le supposizioni. Il mondo non è solo dominato dal Caso o dalla Fortuna ma anche dalle scelte compiute o anche non compiute. L’irrational man che dà il nome alla pellicola in questione si chiama Abe Lucas ed è un professore universitario di filosofia. I riferimenti a filosofi molto noti come Kierkeggard, Kant e Sarte sono molto frequenti nel film. E perché proprio questi autori? Cosa hanno di speciale ai fini della storia? Diciamo che il loro pensiero pervade la vita dell’insolito professor Lucas, un ubriacone, con un passato di droga, estremamente cinico e pessimista. Insomma, un mai una gioia in carne ed ossa. Abe non riesce più ad appassionarsi a nulla. Non riesce più a insegnare, a scrivere il suo nuovo saggio e non riesce nemmeno più a fare l’amore. E’ un uomo disperato e secondo Kierkegaard la disperazione è il male peggiore che l’uomo possa affrontare. Come dice giustamente Abe però, il filosofo danese era molto credente e riponeva ogni speranza nella figura di Dio. Purtroppo l’antieroe di Woody Allen non ha la stessa fortuna, o per meglio dire, la stessa via di fuga.

Sicurezza e tranquillità possono significare essere disperati”, da La malattia mortale di Søren Aabye Kierkegaard.

Abe vorrebbe essere molto più pragmatico e molto più legato alle cose del mondo. Sostiene l’importanza dell’esperienza sensibile, perché solo grazie a essa possiamo sentirci veramente in grado di giudicare. Questo è a tutti gli effetti il pensiero di Kant. Ma l’esperienza può davvero aiutarci a capire e formulare un giudizio universale? Se questo assunto vale per le scienze, dovrebbe valere anche per la morale?

“Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo, e mai come semplice mezzo”, da Critica della ragion pura di Immanuel Kant.

All’appello manca Sartre e il suo famoso “L’inferno sono gli altri”, pronunciato dal professore durante una lezione, senza dare ulteriori spiegazioni. Forse Allen ha appositamente omesso una spiegazione di modo che noi spettatori la cogliessimo e la analizzassimo? Che cosa vuol dire “l’inferno sono gli altri”? Potrebbe voler dire che è meglio una vita in cui è meglio imparare a stare bene con se stessi poiché spesso gli altri ci giudicano senza mettersi nei nostri panni? Oppure potrebbe riferirsi al nostro consueto modo di vivere, ovvero non attraverso i nostri occhi e i nostri princìpi, ma attraverso quello che crediamo che gli altri vedano in noi? Insomma, la faccenda sembra essere parecchio complicato. Sta di fatto che Abe vive questa sua terribile condizione esistenziale proprio perché, indipendentemente dal valore che si vuol dare all’assunto di Sartre, si sente giudicato dagli altri. Cosa fare allora per ristabilire l’equilibro nella propria esistenza? Fare una scelta. Una scelta che si rivela essere del tutto irrazionale: uccidere un uomo, un giudice senza scrupoli per la precisione, disposto a togliere i figli a una madre ormai disperata per affidarli esclusivamente a un padre inaffidabile, almeno a detta della madre.

“Ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere”, da L’esistenzialismo è un umanismo di Jean-Paul Sartre

Premessa: Abe non conosce questa donna, la sente solo parlare in un bar.

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Un gesto sadico quello del professore che però, secondo il suo ragionamento, gioverà sia a lui, perché così avrà fatto del bene a una povera donna indifesa, sia a lei perché avrà la possibilità di riavere i figli con sé. Abe non rinnegherà mai questa scelta anzi, ne andrà sempre più fiero, anche quando scoprirà che un altro uomo è stato ingiustamente accusato. “Un omicidio porta sempre a un altro omicidio” sostiene Jill, una delle studentesse preferite del professore, nonché sua amante. E’ lei a scoprire la verità e a cercare  di riportare l’uomo alla razionalità. Jill è una grande sostenitrice della morale in senso stretto, secondo cui dal male non può che derivare solo altro male. Le cattive azioni per lei sono solo un deterrente se si vuole fare qualcosa di buono. Abe sostiene invece che nella vita bisogna essere pratici, agire e smettere di piangersi addosso, anche a costo di fare del male. Durante il finale del film, che non voglio svelare, mi sono detta “certo che il postino suona sempre due volte!”. Insomma chi la fa l’aspetti. Per chi avesse tempo e  voglia di vedere questo bellissimo film, vi consiglio di fare attenzione a un oggetto apparentemente insignificante ma che in realtà avrà un ruolo importantissimo alla fine della storia, come spesso accade nei film di Woody Allen.

Buona visione!

L’immagine della maternità

Dicono che dare alla luce un essere umano sia l’esperienza più bella di tutte. Dicono che diventare madre cambi completamente la vita di una donna, fin dai primi istanti della sua gravidanza. Insomma, sulla maternità di cose se ne dicono tante. Ma come si potrebbe descrivere una così indimenticabile esperienza? E, qualora le parole non fossero sufficienti, come la si potrebbe rappresentare in un’immagine? Il mondo dell’arte ci ha sempre provato ha puntato soprattutto sul lato spirituale della maternità. Basti pensare alla madre di tutte le madri secondo la religione cattolica, ovvero la Vergine Maria, dipinta innumerevoli volte insieme a Gesù. A partire dall’arte medievale, seguita da quella rinascimentale, la Madonna è l’unica icona possibile della maternità. Un esempio, un modello da seguire, in quanto simbolo di purezza (tanto da rimanere incinta senza rapporti carnali). La Madonna è l’essenza stessa della maternità e ogni artista cerca sempre di darne una propria visione. Leonardo Da Vinci per esempio, ne la Madonna Litta, propende per un’immagine molto trasognata ma comunque realistica della Maria, che guarda incantata il Bambino nel momento più intimo: l’allattamento, indice di un’unità  che potremmo definire ‘psico-fisica’ tra una madre e il proprio figlio.

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Leonardo Da Vinci, ‘Madonna Litta’, 1490, tempera su tavola, Museo dell’Hermitage, San Pietroburgo

Raffaello invece, nella sua Madonna Sistina, preferisce una visione più eterea della Madonna. Maria è colei al di sopra di ogni cosa, che come tale discende fiera sulla Terra, tenendo tra le braccia il Figlio di Dio, venuto al mondo per aiutare gli uomini. Il dipinto mostra la coppia madre e figlio accompagnata da due angioletti, da san Sisto papa e da santa Barbara, aumentando quel valore simbolico che l’ha sempre contraddistinta nella storia dell’umanità.

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Raffaello Sanzio, ‘Madonna Sistina’, 1523-1514 circa, olio su tela, Gemäldegalerie, Dresda

Ma come ben sappiamo ci sono madri che sono come diamanti: preziose e insostituibili, che mai scalfiscono l’amore per i propri figli. La famosissima Pietà di Michelangelo ne è un esempio. Gesù è ormai uomo e giace esanime tra le braccia della madre, che così come alla nascita lo aveva accolto in vita, ora lo accoglie nella morte. Un’estensione fortissima del sentimento materno, che oltrepassa ogni confine proprio grazie alla pietà, alla compassione che porta una madre a provare le stesse emozioni e gli stessi sentimenti del proprio figlio.

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Michelangelo Buonarroti, Pietà, 1497-1499, marmo, Basilica di San Pietro in Vaticano, Città del Vaticano

Verso la fine dell’Ottocento, la visione della maternità conserva sì una sua spiritualità, ma sconnessa dalla religione cattolica. La maternità è anche e soprattutto un’esperienza ‘naturale’, nel senso di ‘legata alla natura’. Giovanni Segantini per esempio, si ispira alle scene di vita agreste per ricondurci alla naturalità e quindi alla semplicità dell’essere madre. Ne Le due madri infatti, l’artista dipinge le due figure dormienti di una contadina e di una mucca, con accanto i loro piccoli, all’interno di una stalla. Ci troviamo di fronte a un’atmosfera dolce e accogliente, come solo il ventre di una madre può essere. A dare calore all’ambiente è la fievole luce della lanterna posta al centro della scena, resa con pennellate minute, filamentose e di colore puro, tipiche del Divisionismo italiano. In quest’opera la maternità altro non è che l’origine della vita, l’istinto che accomuna tutti gli esseri viventi. E’ l’amore universale. Diversamente da Segantini, Gaetano Previati riprende l’iconografia classica della Madonna con Bambino, ma riadattandola alla tecnica divisionista. Nel suo dipinto La Maternità infatti, quest’ultima appare come un sogno, così che lo spettatore possa celebrarne semplicemente l’idea astratta ed elevarla a esperienza totalmente spirituale, distaccata dalle cose terrene. 

Gaetano Previati
Gaetano Previati, ‘ La Maternità’, 1890-1891, olio su tela, Banca Popolare di Novara- Gruppo Banco popolare

Migliaia di esempi si potrebbero ancora fare su come rappresentare la maternità in un’immagine. Credo che al di là dei numerosi contributi che il mondo dell’arte ci ha lasciato a tal proposito, non bisogna mai trascurare una domanda importante: le donne come vivono una simile esperienza di vita? Potremmo asserire che per alcune essere madri è fondamentale, mentre per altre non è di certo una priorità. Molte scelgono di avere un figlio, perché per loro i figli desiderati sono un dono incomparabile. Altre invece rimangono incinte “per sbaglio”, come si suol dire. C’è chi propende per continuare la gravidanza, c’è chi invece preferisce interromperla. Indipendentemente da come una donna possa sentirsi, è giusto che abbia la facoltà di scegliere se avere un figlio oppure no. E’ giusto darle la possibilità di decidere di essere madre, senza che nessuno possa permettersi di giudicarla, perché domani a fare le spese di una decisione non presa sarà una persona che sicuramente non ha scelto di venire al mondo.

Immagine in evidenza: Giovanni Segantini, ‘Le due madri’, 1889, olio su tela, Galleria d’arte moderna, Milano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’urlo di chi voce non ha. In ricordo di Angelo

Cosa spinge un essere umano a torturare e uccidere un animale? Nel nostro Paese molti hanno iniziato a porsi questa domanda soprattutto dopo la terribile morte del cane detto Angelo, avvenuta l’anno scorso.

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La statua dedicata ad Angelo, realizzata dall’artista Alessandro Di Cola e inaugurata a Roma nel gennaio del 2017.

E’ il 25 giugno del 2016. Quattro ragazzi di Sangineto, paesino in provincia di Cosenza, in un momento di noia apparente, vedono un bellissimo cane randagio. Attirano la sua attenzione e lo appendono a un albero per il collo. Poi lo prendono ripetutamente a bastonate fino a provocargli la morte. Il tutto filmato con il cellulare di uno di loro. I ragazzi si chiamano Giuseppe Liparoto, Nicholas Fusaro, Luca e Francesco Bonnata e hanno tutti più o meno vent’anni. Nicholas, durante un’intervista condotta da Nina Palmieri de Le Iene, in cui era presente anche Giuseppe, alla domanda “Perché lo avete fatto?”, tutto impacciato risponde “Per vendetta”. A questo punto verrebbe da chiedersi: “Cosa può aver fatto di male quel cane per meritare un simile castigo?”. Secondo quanto riportato sempre da Nicholas, l’idea di uccidere barbaramente Angelo sarebbe stata di Luca Bonnata, sostenendo che quel randagio “gli aveva mangiato le pecore”. Che sia vero o no, sta di fatto che tutti loro hanno partecipato a un macabro gesto. Sia chi ha guardato senza fare nulla sia chi ha picchiato Angelo e si è reso autore del suo omicidio. Perché di questo si è trattato:  di un omicidio. Gli psichiatri sostengono che la stragrande maggioranza degli assassini seriali cominci la sua ‘carriera’ proprio a partire da sevizie e uccisioni a danno di cani, gatti, lucertole e via discorrendo. I primi studi su tali atti detti IATC (Intentional Animal Torture and Cruelty) risalgono solo agli anni ’70, quando la scienza per la prima volta inizia a elaborare il cosiddetto ‘profiling’, nonché il profilo dei serial killer. Fin dalle prime ricerche emerge come atteggiamenti di violenza e crudeltà nei confronti degli animali si manifestino per lo più a causa di abusi fisici e/o mentali subìti durante l’infanzia. Tali abusi sono spesso causa a loro volta di problemi sessuali che portano i killer a provare un piacere perverso nel commettere questi atti estremamente violenti. Ancor più se si tratta di animali piccoli e più indifesi. Atti che potremmo assolutamente definire di sadismo e che in poco tempo si spostano sui propri simili. Credo che la vittima, un animale e poi una persona, rispecchi in qualche modo quella sensazione di impotenza che, da bambino, il killer deve aver provato quando veniva abusato. Mentre interpreto la tortura come una sorta di modus operandi per cercare di scalfire, e così facendo resettare, quella debolezza che gli aveva impedito di reagire alle violenze. Sinceramente non conosco il passato dei quattro ragazzi di Sangineto. Non so quindi se abbiano subìto abusi oppure se siano semplicemente figli dell’ignoranza. Ma di una cosa sono certa: ciò che è stato commesso quel 25 giugno del 2016 è stato un atto sadico, che ha provocato in loro divertimento e che poteva essere tranquillamente perpetrato ai danni di un altro essere umano. Si tratta pur sempre di una vita spezzata da chi presuntuosamente ritiene di corrispondere a un essere vivente più meritevole. Ciò che ha fatto indignare il nostro Paese, che si è scagliato molto aggressivamente contro questi ragazzi e tutta Sangineto, accusandola di omertà, non è stata solo la morte di Angelo, ma anche il voyeurismo rappresentato dal video pubblicato in rete. Quante persone sono riuscite effettivamente a guardarlo con un certo compiacimento? Penso che queste persone debbano farsi lo stesso esame di coscienza dei ragazzi di Sangineto. Nicholas, Giuseppe e i due fratelli Bonnata, sono stati recentemente condannati a 16 mesi di reclusione, con tanto di periodo di volontariato nei canili. Altro fatto che ha reso ancora più forte l’indignazione del popolo italiano.

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Uno dei numerosi manifesti circolanti durante le manifestazione di solidarietà nei confronti di Angelo
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La notizia della condanna dei 4 imputati per l’omicidio di Angelo pubblicata sulla pagina Facebook  a lui dedicata

Io ritengo che l’urlo di Angelo sia stato sottovalutato o forse non compreso dalla giustizia italiana. Un urlo tacito, perché Angelo scodinzolava mentre veniva picchiato. Mai un lamento si è levato dal suo dolce muso. Ma forse, anche se ci fosse stato, nessuno lo avrebbe sentito. Nessuno avrebbe sospettato di nulla. Perché un cane non ha voce e non può difendersi. A un cane basta ringraziare con gli occhi chi gli dà da bere e qualcosa da sgranocchiare. E se è vero che c’è da indignarsi per ciò che è accaduto a Angelo e a tanti altri, è vero anche che migliaia di persone si sono mobilitate in sua difesa. E questo ci dice che c’è speranza perché c’è e ci sarà sempre qualcuno che presterà il proprio urlo a chi voce non ha.

#inricordodiAngelo

 

Beni culturali: lo scandalo dei fantasmi

Rieccomi a parlare di beni culturali. Questa volta mi baserò su un servizio di Dino Giarrusso andato in onda alle Iene domenica 28 maggio. L’argomento è già stato trattato più volte. Si tratta del precariato nel settore dei beni culturali! Non che il precariato sia prerogativa solo di questo settore in Italia, sia ben chiaro. Però ogni tanto non è male dare ai beni culturali nostrani l’importanza che meritano, mostrando gli innumerevoli problemi che si annidano dietro di loro. Nel servizio delle Iene è chiaramente mostrato come un gruppo di lavoratori di alcune strutture statali, vengano trattati come veri e propri fantasmi

Risultati immagini per in che senso verdone Non si tratta di lavoratori subordinati, con tanto di contratto di lavoro in essere, ma di ‘volontari’. In realtà, anche questa qualifica non sarebbe la più adatta dato che, al momento della loro ‘assunzione’, era stato proposto loro un rimborso spese di 400 euro. Il bello arriva proprio ora. Come vengono percepiti questi 400 euro? Tramite bonifico bancario?

Immagine correlata Tramite scontrini! Eh sì! Basta presentare a chi di dovere gli scontrini con le spese effettuate e voilà, il rimborso spese dello Stato è servito. Come fa notare giustamente Giarrusso nel suo servizio, il governo italiano sta attualmente ridiscutendo il riutilizzo dei voucher. Ma cosa sono questi famosi voucher? Si tratta di buoni lavoro per prestazioni occasionali, che negli ultimi anni le aziende hanno utilizzato un po’ sproposito, anche per lavori non occasionali. Pare che il loro abuso abbia portato il governo ad abolirli definitivamente. Che il governo abbia fatto bene o meno, sta di fatto che in un periodo storico in cui lavorare è più un privilegio che un diritto, mi sembra assurdo perdersi in certe discussioni. Anche perché, ritornando ai nostri amici ‘volontari’, pagare con dei coupon un servizio lavorativo svolto regolarmente è da considerarsi illegale. C’è chi su Facebook si indigna non solo contro il Ministero dei beni culturali, ma anche contro queste persone che per anni si sono accontentate di uno sfruttamento simile senza fare nulla. Io sono fortemente convinta che in un Paese malato come il nostro ci sia poco spazio per le parole. Molte sono invece le azioni che si devono compiere e il prima possibile. Noi italiani in primis dovremmo imparare a essere più forti, a rischiare di più, a dire basta e agire affinché tutto cambi. Lo Stato non sono solo i politici, i consiglieri regionali e i sindaci, ma siamo soprattutto noi persone comuni. Io mi auguro che un giorno ci possa essere una rivoluzione, che io preferisco non interpretare come una ribellione o una sorta di guerriglia, ma come un cambiamento. E mi auspico che questo cambiamento possa davvero portare aria nuova ai nostri polmoni, per farci respirare finalmente bene, dopo tanto tempo.

Prendi l’arte… e NON metterla da parte

Lavorare nei musei mi ha reso consapevole di una cosa: in Italia l’arte si mette da parte. O forse è così solo a Milano, città in cui io ho lavorato? Non lo so, sta di fatto che è così. Al di là dei metodi di conservazione delle opere d’arte su cui sono poco afferrata e che di conseguenza preferirei non giudicare in questa sede, ciò che più mi preoccupa è l’atteggiamento del pubblico nei loro confronti. Prima di lavorare nei musei milanesi ero fortemente convinta che a frequentare posti come musei e gallerie non fossero dei profani dell’arte, ma delle persone acculturate o comunque seriamente interessate a ciò che tali posti poteva loro offrire. In alcuni musei effettivamente si vede questo tipo di visitatori. Musei piccoli, un po’ nascosti, poco pubblicizzati. Tutti gli altri sono oggetto della clientela più varia. E tra questa clientela, ecco comparire visitatori… come dire… un po’ disinformati. Chi entra in un museo perché non ha nulla fare in un determinato momento della giornata e deve passare il tempo. Chi entra con tutti i buoni propositi e alla fin fine non sa nemmeno ciò che si trova di fronte. Non ha la minima idea di quale sia il periodo storico in cui certe opere sono state realizzate e da chi e pur in presenza di pannelli esplicativi, questi passano del tutto inosservati. O semplicemente la voglia di leggerli non c’è. Probabilmente, una loro eventuale lettura richiederebbe troppo tempo. A tal proposito, è interessante notare che ci sono persone che chiedono seriamente al custode quanto tempo ci vuole per visitare il museo o la galleria. La domanda che mi è sempre venuta spontanea è: il custode cosa dovrebbe rispondere di preciso? Di fatto il custode cerca sempre di dire quanto tempo ci si metterebbe ‘in media’. E’ anche vero però che ognuno di noi si concede il proprio tempo per visitare un luogo di cultura. Se una persona volesse stare mezzora davanti a un quadro sarebbe liberissima di farlo (basta rispettare l’orario di chiusura ovviamente). Io credo fortemente che dove c’è arte c’è sacralità e quindi dovrebbe esserci rispetto. Invece, spesso e volentieri, aleggia il solito clima milanese di frettolosità generale. Difficilmente i visitatori si staccano dal loro cellulare, tanto che a malapena si ricordano di metterlo sul silenzioso. Permane quell’impulso irresistibile di scattare una foto, anche quando è severamente vietato, piuttosto che contemplare un’opera con i propri occhi.

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Si schiamazza con l’amico o l’amica davanti a un’opera dicendo “ma cosa dovrebbe rappresentare?”, senza metterci il minimo impegno per dare anche solo una propria interpretazione personale. Diciamo semplicemente che nel nostro Paese l’arte si mette molto da parte e questo è un male. Un male vero. Sull’arte si deve investire, non solo perché così facendo il maggior numero di persone siano invogliate a pagare un biglietto, ma anche perché è necessario tutelarla. L’arte non è un pezzo di marmo, un olio su tela o un acrilico. L’arte è storia e come tale porta con sé tutte le emozioni e i sentimenti che l’hanno accompagnata. L’arte è una grande maestra, perché ci insegna che ci sono tanti punti di vista diversi con cui guardare il mondo. Ma soprattutto ci insegna che la cultura ci rende liberi, perché ci fa pensare con la nostra testa.

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L’arte è di tutti noi anche se non tutti riescono a capirla. L’arte è un bene prezioso che deve essere protetto, esattamente come si proteggerebbe una vita. E di cosa si nutre una vita? O meglio, cos’è che lascia le tracce di una vita? I ricordi, e l’arte equivale proprio a questi. Io ho scelto di essere una di quelle persone che non mette l’arte da parte ma se ne sente parte perché se senza vita non c’è arte, senza arte non c’è vita.

Mal di pietre

E’ diventato ormai così banale cercare disperatamente l’amore? L’amore con la A maiuscola, che ci fa battere il cuore all’impazzata e che non ci fa pensare ad altro? Io stessa mi rendo conto di dare primaria importanza ad altro, come avere un lavoro sicuro, prendermi cura del mio cagnolino, uscire a divertirmi con le amiche o ancora a vedere un bel film e leggere un buon libro. Ma se fossi stata una ventenne negli anni ’50? Avrei avuto gli stessi pensieri? Avrei messo davvero al primo posto tutto questo anziché l’amore? Ovviamente non posso rispondere con certezza. Pochi giorni fa però ho deciso di vedere un film che mi ha fatto un po’ riflettere sull’argomento: Mal di pietre. Film di Nicole Garcia, con protagonista la splendida Marion Cotillard e tratto dal romanzo della scrittrice Marilena Agus, Mal di pietre è una storia di passione e tormento di una giovane donna del Sud della Francia, ambientata tra gli anni ’50 e ’70. Gabrielle, la protagonista, prova due tipi di sofferenza, che vanno di pari passo: quella fisica e quella morale. Più Gabrielle si sforza di cercare “la cosa principale”, l’amore, più il dolore fisico aumenta e non le dà tregua. La  sua ricerca è talmente spasmodica che la ragazza arriva perfino a infatuarsi di un giovane professore di lettere felicemente sposato e prossimo alla paternità, che lei crede la corrisponda solo per averle regalato un romanzo che narra di una storia d’amore: Cime tempestose (niente di più azzeccato!). L’unica soluzione che sua madre pensa bene di trovare per ‘riportarla sulla retta via’ è quella di farle sposare un ingenuo manovale spagnolo, José, che la figlia non ama, promettendogli in cambio un futuro migliore. Gabrielle vorrebbe essere a tutti i costi una donna moderna, ma non può perché regole sociali ancora molto legate a un mondo arcaico e tradizionale la sovrastano. Per una donna non c’è scelta: o sposare l’uomo che i genitori vogliono o rimanere nel disonore a vita per non essere mai convolata a nozze e non aver mai dato alla luce un figlio. Il concetto di giovinezza sembra completamente perdere le proprie tracce. La spensieratezza e la voglia di fare esperienze nuove è assolutamente impossibile in una società ancora così genitoriale in cui è proprio la madre o il padre a decidere sulle sorti del proprio figlio o della propria figlia.

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Quello che per una madre è un “problema di nervi” è in realtà soltanto la consapevolezza di una ragazza di star diventando grande. Gabrielle soffre della malattia denominata appunto mal di pietre o più banalmente calcoli renali. Le ‘pietre’ che ha di fatto sui propri reni, Gabrielle le avverte invece sul proprio cuore, appesantito dalla mancata possibilità di scegliere per sé e di seguire i propri istinti. Onde evitare di subire un secondo aborto spontaneo, la giovane donna sarà costretta dal marito a recarsi in una clinica specializzata, isolata tra le Alpi svizzere. Ma proprio in una condizione di buio però Gabrielle riesce a trovare la sua luce: André Sauvage, giovane reduce dalla guerra di Indocina. Nonostante la morte per André sia ormai vicina, Gabrielle non può fare a meno di andare oltre la caducità della vita per cercare quella che rimane per lei “la cosa principale” e in quanto tale eterna.

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La passione per André la risveglia dai suoi tormenti e anche i suoi calcoli renali sembrano essersi dissolti in poche settimane. André è per lei una via di fuga dalla realtà ma al tempo stesso un’ossessione che la divorerà sempre di più. Il finale del film è sorprendente (io sono rimasta a bocca aperta!) e da un certo punto di vista un po’ amaro, ma delinea un percorso di crescita non facile e doloroso dopo il quale Gabrielle rinasce completamente. 

Desperate Housewives: i segreti dell’essere umano

Non sono mai stata un’appassionata di serie tv. Anzi, ho sempre preferito i soliti film della durata di 120 minuti (a volte anche di più), che trattassero argomenti interessanti e che potessero essere d’ispirazione per le mie riflessioni. Fino a che una sera, per puro caso, su Rai4, mi imbatto in una puntata di un telefilm che noi tutti, anche solo per sentito dire, conosciamo: Desperate Housewives. Si trattava di un episodio molto intrigante in cui una coppia di personaggi aveva un segreto da nascondere. Siccome i segreti mi sono sempre piaciuti, quella stessa sera mi sono detta:”Perché non tentare di vedere questo telefilm? Mal che vada mi annoierò e lo lascerò in sospeso per sempre (come è più volte successo)”. Il giorno dopo eccomi alla prima puntata della prima stagione della mia nuova ossessione, risalente all’ormai lontano 2004. Desperate Housewives mi ha subito colpito per il suo eclettismo. Possiamo trovarvi davvero di tutto: commedia,tragedia, humor, noir… ma sopratutto la critica amara. Desperate Housewives altro non è che il ritratto della società americana, o meglio occidentale, del 21° secolo, concentrata in un piccolo quartiere residenziale frutto dell’immaginazione dell’autore Mark Cherry: Wisteria Lane.

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Il fatto che il tutto sia ambientato in una finta cittadina degli States, Fairview, crea quel distacco dalla realtà che è necessario affinché lo spettatore possa immedesimarsi nelle situazioni senza però giudicare. Io personalmente mi sono spesso identificata nei personaggi e soprattutto nelle quattro protagoniste: Bree Van de Kamp, Gabriel Solis, Lynette Scavo e Susan Mayer. Eccole qui le cosiddette ‘casalinghe disperate’.

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A chiamarle così sembra un po’ ironico (anche se di fatto è il titolo della serie), ma in realtà hanno tutte e quattro dei validi motivi per essere disperate fin dalla prima stagione. Bree non si capacita del perché il marito Rex voglia divorziare da lei e perché i figli non la rispettino; Gabriel arriva a farsi un amante molto più piccolo di lei per non soffrire le mancanze del marito Carlos, così devoto al lavoro: Lynette, ex donna in carriera, si ritrova a dover gestire ben tre terribili figli e un quarta appena nata e un marito Tom quasi perennemente assente (sempre causa lavoro!!); e infine Susan, reduce da un divorzio a causa del tradimento del marito Karl. Ma manca una quinta casalinga all’appello, colei che fino all’ultima stagione sarà la voce narrante di tutta la serie: Mary Alice Young. Tutto inizia con lei, o sarebbe più corretto dire con il suo suicidio. Altro che disperata direi!! La povera casalinga nasconde infatti un segreto che nemmeno le sue dolci amiche di cui sopra conoscono l’esistenza e che mette in discussione tutto ciò per cui loro stesse provano così tanto dolore. Desperate Housewives non è solo critica quindi ma anche una bellissima storia di amicizia, solidarietà e di tanti sensi di colpa di cui spesso l’essere umano è vittima. E’ una storia di inadeguatezza e di silenzi, in cui spesso ci crogioliamo, o perché vogliamo proteggere chi amiamo o perché non vogliamo essere giudicati. Infine, è una storia di ipocrisie a cui spesso siamo soggetti, ma che allo stesso tempo ci caratterizzano, delle quali ahimè non possiamo fare a meno. Nonostante le tante difficoltà che le quattro amiche e vicine di casa affrontano insieme nel corso degli anni, le loro strade sono destinate a dividersi. O meglio, sono le stesse casalinghe a scegliere spontaneamente di farlo. Non si vogliono più bene forse? No! Semplicemente a un certo punto si decide di cambiare la propria vita, indipendentemente da chi ci circonda. Dopo anni di disperazione, le casalinghe trovano la propria realizzazione lontano le une dalle altre, ma probabilmente ricordandosi degli anni passati insieme e di come tutto ciò che hanno condiviso le abbia portate a trovare finalmente il loro posto nel mondo. 

P.S Se ancora non si fosse capito consiglio vivamente ne consiglio vivamente la visione!!

Pride – molto più di una gay revolution

L’essere umano è nato per combattere. Soprattutto per i propri diritti. Pride, film del 2014, ne è la dimostrazione. Ed è anche la dimostrazione di come l’essere umano non solo sia in grado di lottare contro l’emarginazione sociale, ma anche di sconfiggere il pregiudizio. Il film, tratto da una storia vera, è ambientato negli anni più bui che la Gran Bretagna abbia mai vissuto. Siamo negli anni ’80 e le scelte politiche di Margaret Thatcher non facilitano certo la vita ai minatori britannici. Nel frattempo anche gli omosessuali iniziano a far sentire la propria voce per essere riconosciuti dallo Stato. C’è chi da una parte lotta per il diritto al lavoro e chi dall’altra per i diritti civili. Nel 1984, in occasione dell’organizzazione del Gay Pride a Londra, il giovane Mark Ashton ha quello che si dice ‘un lampo di genio’. Capisce che sia omosessuali sia minatori sono vittime dello stesso sistema che altro non fa che metterli in un angolo. Da qui la sua decisione di sostenere sia economicamente sia moralmente campagna dei minatori. Da qui nasce l’associazione LGSM (Lesbiche e gay sostengono i minatori). Gli unici gruppi di minatori a rispondere all’appello del nuovo gruppo sono gli abitanti di un piccolo paese del Galles. Ma saranno tutti contenti di combattere al fianco di certi ‘pervertiti’? Inizialmente no, anzi, c’è chi tenta proprio di sabotare questa solidarietà! Ma l’evidenza può essere a lungo negata? Fortunatamente no! Mark Ashton e i suoi collaboratori si danno talmente tanto da fare che arrivano a raccogliere migliaia su migliaia di sterline. I minatori capiscono che senza gay e lesbiche a combattere non ci sarà mai speranza per loro e scelgono di andare oltre l’ignoranza e il pregiudizio. Organizzano feste con loro, si recano nei tipici locali gay londinesi, imparano a conoscere lo stile di vita vegano e i giovanotti del paese imparano a ballare per riuscire a sedurre le ragazze. Due mondi così diversi ma allo stesso tempo così vicini, riuniti in una grande manifestazione che porterà i suoi splendidi frutti. Tradizione e modernità si alleano sullo stesso campo di battaglia. Si crea come una calamita tra ciò che è ormai conosciuto e ciò che è ancora poco noto ai più. Il vecchio che dà man forte al nuovo e viceversa. Perché la storia dell’umanità è fatta proprio così. Passato e futuro ne sono parte integrante. E ciò che li unisce è il presente. La lotta dei gay e dei minatori non è solo di sfondo sociale ma anche morale. E’ la lotta contro l’emarginazione, contro un isolamento costrittivo, contro il pregiudizio che altro non fa che incupire l’anima di un essere umano. La libertà non è solo un diritto, ma anche quella sensazione che fa stare bene ognuno di noi perché ci fa vivere davvero. E Pride ci insegna come davvero dovremmo vivere. Perché odiare qualcuno solo perché ha dei gusti sessuali diversi dai miei? Perché bistrattare chi ha un lavoro più umile del mio?  Non bisogna essere un genio per garantire a tutti i propri diritti! E Pride mostra ciò che costituisce il vero orgoglio: bontà, rispetto e solidarietà .

Frialty: uccidere per Dio

Pochi giorni fa ho deciso di vedere un film, alquanto discutibile direi. Non discutibile nel senso di poco serio. Anzi, Frialty è un film serissimo dato che tratta una tematica molto delicata e soprattutto attuale. Ecco la trama. Una sera si presenta alla polizia di Dallas un certo Fenton che chiede di parlare con il detective Doyle che sta da tempo indagando su un serial killer chiamato la Mano di Dio. Fenton confessa che si tratta del fratello minore Adam e racconta al detective la torbida storia della sua famiglia. Fenton e Adam sono solo dei ragazzini quando una sera il padre dice loro di aver avuto una visione divina che gli avrebbe rivelato la missione a cui Dio stesso lo ha chiamato: distruggere dei demoni celati in forma umana. Ma mentre Adam crede fermamente alle parole del padre, Fenton è restio e pensa invece che sia impazzito. Dopo alcuni giorni sostiene che Dio stesso gli avrebbe indicato le armi da utilizzare per la causa e i nomi dei demoni da eliminare. Si mette subito all’opera e decide di coinvolgere anche i figli. Fenton  è sconvolto, cerca di far ragionare il fratellino e chiede aiuto allo sceriffo. Il padre lo obbligherà per settimane a stare sotto una specie di scantinato per fargli trovare ciò che non possiede: la fede. Ormai esausto, ma finalmente liberato dal padre, Fenton lo uccide, rivelandosi agli occhi del fratellino Adam un demone anche lui. Una volta tornati al presente, l’epilogo è a dir poco agghiacciante. Fenton infatti non è chi dice di essere. E’ infatti il piccolo Adam ed è il vero autore delle morti su cui Doyle sta indagando. Adam però non è un serial killer ma un giustiziere che risponde solo alla volontà di Dio. Non uccide persone, ma demoni. Non ha risparmiato il fratello Fenton così come non risparmia il detective, reo di aver ucciso sua madre. Premetto che non credo in angeli e demoni. Non credo nel sovrannaturale ma non giudico chi ne sostiene l’esistenza. Appena finito di vedere il film ho pensato:”Beh, ma non si tratta di veri e propri demoni! Sono esseri umani che hanno commesso grossi sbagli, o meglio crimini!”. Se fosse per me meriterebbero pure la morte, ma io non sono una persona religiosa. Non credo nel perdono né nella misericordia. E Dio invece? Quante versioni ci possono essere di Dio? Chi è veramente e com’è? E’ buono o cattivo? E’ misericordioso o no? Perdona o è assetato di vendetta? Qual’è la verità? Frailty crea molti dubbi a riguardo e implicitamente fa capire quanto sia soggettiva la visione di Dio. Inoltre, a me personalmente ha portato a pormi ulteriori domande. I crimini che un essere umano può commettere possono essere messi tutti sulla stesso piano? Possiamo davvero condannare il gesto di un ragazzino come Fenton che vede il padre massacrare quelle che lui vede semplicemente come persone in carne e ossa? Secondo noi Fenton potrebbe continuare a vivere con un padre che non solo gli impone di credere in Dio ma lo obbliga addirittura a vederlo, tra atroci privatezze? Come ci saremmo comportati noi al suo posto? Possiamo davvero considerarlo al pari di un omicida di bambini e quindi un demone? Ognuno di noi la penserà in maniera diversa. Una cosa però è certa: per Dio si uccide. La storia ce lo dimostra continuamente. Che sia pagano, cristiano o musulmano l’uomo per i suoi dèi o il suo Dio è in grado di commettere le peggiori atrocità. E la religione ne è la ragione, oltre che la giustificazione. Che dire? Forse sarebbe meglio essere atei? O semplicemente prendersi le proprie responsabilità e non nascondersi sempre dietro la grande figura di Dio?

Il Babadook

Ba… ba… ba… dook! Il nome sembra una rassicurante canzoncina per bambini. In realtà non si tratta di un protagonista di libricini per l’infanzia, né di un eroe o di un animale simpatico. Tutto inizia nella casa di una mamma e di suo figlio. Amelia è un’infermiera carina e gentile. Samuel è un bambino di quasi 7 anni, molto fantasioso e ingegnoso. Crede fortemente nell’esistenza dei mostri. Per questo inventa di volta in volta nuove armi per sconfiggerli e si fa carico di una grandissima responsabilità: proteggere la madre dal male. Non la vuole perdere e non vuole che lei se ne vada. Ma cosa spinge un bambino di 7 anni ad avere un pensiero così forte e disturbante? Amelia è una donna giovane, bella ma molto afflitta dagli eventi della vita. Il giorno della nascita di Samuel, il marito perde la vita in un incidente d’auto mentre la sta accompagnando in ospedale. Dal giorno della sua nascita, Samuel non ha mai potuto festeggiare il suo compleanno nel giorno giusto, ma solo giorni dopo. Amelia non riesce a passare oltre, rimanendo attaccata al ricordo di un amore profondo e viscerale. Un amore che è finito troppo presto, per forze di causa maggiore. Ed è proprio in una famiglia fragile e infelice che una sera Samuel mette nelle mani della madre un nuovo libro: il Babadook. Libro di fortuna, probabilmente molto vecchio, con disegni che spuntano fuori dalle pagine. Ma non si tratta di disegni come tutti gli altri, a cui un bambino è abituato. Sono disegni terrificanti, soprattutto quello che mostra l’immagine di Babadook. Un’ombra alta, nera come la pece, con un cappello in testa e lunghi e grossi artigli. Un’incubo. “Let me in” (“Lasciami entrare”) dice Babadook. E ancora “You can’t get rid of the Babadook”(“Non ti puoi liberare di Babadook”).

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Amelia, spaventata a morte, cerca in tutti i modi di liberarsi del libro e del mostro. Ma più cerca di evitarlo e più lui ricompare, nei sogni così come nella realtà. Non aspetta altro che impossessarsi non solo della casa di Amelia ma anche di Amelia stessa, eliminando tutto ciò che lei ama, in primis Samuel. Babadook fa emergere i sentimenti più oscuri e più nascosti della donna. Amelia inconsapevolmente odia il figlio perché è proprio per farlo nascere che il più grande amore della sua vita è morto. Non sopporta Samuel per i suoi disturbi comportamentali che lo portano ad avere problemi a scuola e che allontanano Amelia dalla sorella.

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Ma sarà la carezza di quel  figlio ad aiutarla a uscire dalla possessione del demone. Amelia, anche se sfinita, riesce a imporsi sul mostro, rivendicando la propria casa e il proprio figlio. Babadook è così sottomesso e si nasconde in cantina, dove la donna nasconde a sua volta gli oggetti un tempo appartenuti al marito.  Babadook è la rappresentazione dei ‘demoni’ che travolgono la nostra vita e che spesso noi stessi oscuriamo per paura di affrontarli. Ma se non affrontato in tempo, il male rischia di rovinarci, e per sempre. Amelia non uccide Babadook ma lo assoggetta a sé. Sa che il demone non se ne andrà mai, ma rimarrà per sempre nella casa accanto ai suoi ricordi. Perché il punto però non è mandare via il male, ma conviverci. Ci sono sofferenze che non riusciremo mai a scacciare definitivamente. Basta solo accettarle e sapere che esistono, che sono sempre con noi ma che, allo stesso tempo, noi abbiamo il potere di dominarle.